Una delle più tipiche tradizioni amiatine – come di tutti i paesi poveri – è quella del risparmio. Le nostre nonne, vissute in tempi di povertà e di carestie, erano abituate a riutilizzare al massimo le poche risorse a loro disposizione. Erano in un certo senso maestre di quella tendenza di oggi a riciclare e riutilizzare e conoscevano tutti i segreti più riposti di quest’arte. Nulla si buttava, perché tutto – tutto quel po’ che c’era – poteva tornare utile. Si dice di Platone che è come il maiale: non si butta via niente. Ma questa regola aurea era valida per le antenate amiatine non tanto nei confronti di Platone (di cui conoscevano ben poco) o del maiale (che invece conoscevano bene, perché lo allevavano nelle cantine sotto casa), quanto nei confronti di ogni cosa in generale. Per esempio la cenere: sì, proprio la cenere delle stufe o dei caminetti, preziosissima per fare il bucato e lavare i ceci. Due usi apparentemente inconciliabili, ma in realtà derivanti dal fatto che la cenere è ottima per sbiancare e pulire le cose. Le nostre nonne la mettevano da parte per fare la cosiddetta cenerata (o cinerata), cioè lavare le lenzuola bianche. Lasciare infatti le lenzuola a bagno nella cenere, e poi risciacquarle, le rendeva assolutamente splendenti – e certo le sciupava meno della candeggina. Il procedimento era il seguente (e si consideri che le lenzuola all’epoca erano molto pesanti, tessute al telaio con canapa o lino, estremamente difficili da lavare a mano): si poneva il bucato in una conca, sul fondo della quale c’era un tappo. Quindi si stendeva un panno piuttosto pesante sopra la conca e si ricopriva con tre o quattro dita di cenere. Si versava infine un bel po’ di acqua bollente sul panno, fino a bagnare tutta la cenere e si lasciava il bucato una intera notte a bagno in questo strano detersivo, che prende il nome di ranno. La mattina dopo si stappava la conca – operazione alquanto delicata perché la cenere tende a coagularsi – e si andava al lavatoio a risciacquare il bucato. Era molto facile sbucciarsi le mani e i gomiti, perché i panni trattati con il ranno diventano molto lisci. Il procedimento è identico anche per i ceci: si mette un tovagliolo sopra i ceci, si versa acqua bollente e si lasciano a bagno tutta la notte nel ranno. Il giorno dopo si strusciano con le mani e i gusci vengono via facilmente. La qualità dei ceci viene così salvaguardata e un confronto tra i ceci preparati in questa maniera e quelli in scatola è decisamente a vantaggio dei primi. Un segreto: con il ranno dei ceci si possono lavare i capelli – non esiste shampoo più efficace. Poi, naturalmente, quel che resta del ranno va buttato, perché non è possibile farci nient’altro. Ma con i ceci si possono cucinare mille cose, in particolare un piatto tipico amiatino, la zuppa, deliziosa pietanza che le nostre donne e i nostri chef propongono abbastanza abitualmente, ma che in alcune parti dell’Amiata è divenuto un piatto tipico della notte di Natale, da servire insieme al crostino di cavolo, all’anguilla in umido, al baccalà, allo stoccafisso e alle lumache, sgusciate o no (i famosi lumacci): non si tratta proprio di un pranzo leggero, ma si può fare una volta l’anno. (La presente digressione ne suscita un’altra, più che altro un buffo ricordo, non legato al cibo: c’era ad Abbadia una signora specializzata nel rattoppare le calze da donna in maniera eccezionale, senza che la cucitura fosse visibile: un dono, probabilmente, acquisito in tempo di guerra, quando le ragazze si disegnavano la riga sui polpacci per dar l’illusione di indossare le calze – cosa che avveniva in tutto il mondo, per altro: vedi Radio Days di Woody Allen. Faceva il lavoro per due soldi, ma con la solita cura certosina di tutte le sue contemporanee, solo che era particolarmente asociale e non desiderava ricevere le clienti in casa. Ogni volta che le si portava un paio di calze, diceva che aveva appena finito di dare il cencio sui pavimenti e calava dall’alto della sua finestra un panierino di vimini da funghi, dove si doveva posare il prezioso cimelio da rattoppare. Stessa storia a lavoro finito: il panierino calava con le calze ricucite e la cliente ci metteva dentro quelle dieci lire della ricompensa).

Gli antichi strumenti di lavoro per le raccolte e la lavorazione dei prodotti sopra elencati sono visibili presso il Museo Etnografico di Santa Caterina di Roccalbegna, via Roma 15 (visite su prenotazione al Comune, 0564.989032, f. 0564.989222, g.falciani@comune.roccalbegna.gr.it; presso il Museo della Vite e del Vino di Montenero d’Orcia di Castel del Piano, via della Piazza, 0564.954308, f. 0564.954428, museo@stradadelvinomontecucco.com, visite su prenotazione allo 0564.994630; alla Casa Museo della Civiltà Contadina di Monticello Amiata di Cinigiano, via Grande, 0564.992777 (Pro Loco) e 0564.993407 (Comune), proloco@monticelloamiata.it.